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Il Mondo di Avatar e Molto Altro Dylan Cole, candidato all’Academy Award, ci parla della sua arte, della sua carriera e di tutto ciò che riguarda “Avatar”.

Cresciuto negli anni ’80, Dylan Cole adorava la sensazione di poter fuggire in altri mondi e si immergeva nei fumetti, nei film di Star Wars e negli artbook di quegli universi. Era particolarmente attratto dal matte painting e capì subito che era quella la sua strada.

Eppure, dopo essersi diplomato alla UCLA con risultati eccellenti e aver completato un internship alla “Industrial Light and Magic”, faticava ancora ad affermarsi come concept artist e matte painter, anche a causa delle conseguenze dell’11 Settembre.

La svolta è arrivata da Praga, con un lavoro per “The Sound of Thunder”, a cui seguirono una serie di matte painting per “Daredevil” e un trasferimento in Nuova Zelanda per lavorare al “Signore degli Anelli” come senior-matte painter all’età di soli 23 anni.

La sua opera “Riding Through the Reef” è diventata la guida stilistica per buona parte del mondo subacqueo di Avatar.

Da quel momento in poi la carriera di Cole decolla. Di lì a poco Robert Stromberg, regista, artista e VFX designer che aveva già lavorato con lui a “Chronicles of Riddick”, “The Aviator” e altri film, viene assunto come designer di produzione per “Avatar” portando con sé Cole come concept art director.

Infine, Cole ottiene la produzione del suo primo design in “Maleficent” con Stromberg, che a quel punto era già alla regia. Nel 2013, Jon Landau e James Cameron lo chiamano per il sequel di “Avatar”. Il resto è storia, con Cole che da quel momento diventa uno dei due production designer ufficiali di “Avatar”.

Questa scena di “Reef Overlook” non è presente nel film, ma il suo design è stato essenziale per lo sviluppo della laguna finale.

Abbiamo intervistato Cole, che recentemente è stato candidato per l’Academy Award come “Best Production Design” per “Avatar: La via dell’acqua” insieme al co-designer Ben Procter.

Cole: Il mio primo contatto con il matte painting è stato grazie ai libri Art of Star Wars. Ho sempre amato i concept di Joe Johnston e di Ralph McQuarrie, ma c’era qualcosa di magico nei matte painting di Michael Pangrazio, Chris Evans e McQuarrie. Mi sono innamorato della semplice idea che un dipinto potesse fare da sfondo in un film.

Più avanti - ero stagista alla Industrial Light and Magic - ho avuto la possibilità di veder lavorare dal vivo dei veri professionisti e questo mi ha dato un obiettivo su cui focalizzarmi. Non sapevo nulla di Photoshop e a quel tempo stavo seduto lì senza la minima idea di quello che stavo vedendo. Poi però, durante quell’estate, ho lavorato sodo per imparare a lavorare come loro.

Cole: John Landau e James Cameron avrebbero potuto assumere chiunque avessero voluto ma per “Avatar” preferivano tenere “tutto in famiglia", per così dire, quindi hanno reinserito sia me che Ben basandosi sulla nostra esperienza con “Avatar” 1. Entrambi eravamo diventati di diritto production designer, è stato un passaggio molto naturale.

All’inizio dovevano esserci altri 3 sequel che sarebbero stati girati tutti in una volta. Dopo diverse riunioni con James, in cui ci presentava descrizioni generiche del villaggio e di quelle enormi mangrovie, avevamo l’incarico di sviluppare i design finali. É stato un lavoro duro che ci ha tenuto impegnati a lungo. Il villaggio di Metkayina è stato sicuramente la sfida più importante in questo film.

Una rendering provvisorio del modello di Cole del villaggio Metkayina creato con C4D e Octane. Un primo dipinto del villaggio Metkayina al tramonto mostra l’idea di base per il villaggio.

Abbiamo assunto un piccolo team per aiutarci: Steven Messing, John Park, David Levy e Fausto De Martini. Mentre lavoravamo alla sceneggiatura del film è stato chiaro fin da subito che “Avatar” 2 era una cosa davvero grossa e che la trama era molto intricata.

Quindi il progetto è stato diviso a metà per sviluppare un secondo e terzo film. Abbiamo deciso di seguire l'intero processo: performance capture, live action, riprese virtuali, post-produzione, ecc. sia per il secondo che per il terzo film. Poi avremmo fatto di nuovo l’intero ciclo per il quarto e quinto sequel. Gran parte del design però lo avevamo già preparato in anticipo per tutti i film, quindi sapevamo già dove volevamo arrivare, sia visivamente che tematicamente.

Cole: Abbiamo fatto circa un anno e mezzo di riprese delle performance, poi quasi un anno di riprese reali e altri sei mesi o forse un anno di riprese virtuali. É stato un processo molto lungo, soprattutto perché siamo stati rallentati da diversi fattori, incluso il Covid. Inoltre lavoravamo a due o tre film contemporaneamente quindi era davvero un lavoro monumentale.

Il team di “Avatar” si è anche preso una pausa, diventando il design department di “Alita: Angelo della Battaglia”. In qualsiasi altro momento un film come quello ci sarebbe sembrato un’impresa mostruosa, ma ci è sembrato invece un piccolo e divertente intervallo rispetto ad “Avatar”!

Il primo matte painting di Cole della Baia degli Antenati, dove ha sviluppato l’idea di usare archi invertiti in riferimento al primo film.

La fase di production design è una battaglia continua, dobbiamo sempre risolvere così tanti problemi! Prima di tutto c’è la necessità di rendere giustizia al copione e alla storia. Ma bisogna anche considerare l’alto livello di filosofia per i visual del film e pensare a come rappresentarlo. Ovviamente il risultato deve essere anche molto cool, quindi è tutto un grande gioco di equilibri e sono molto fiero di come siamo riusciti a bilanciare il tutto.

Cole: “Avatar” ha un forte legame con il concetto di connessione. È presente in tutto ciò che abbiamo sviluppato: il villaggio è connesso alle persone, al mare e a se stesso in un modo che evidenzia le idee principali del film e di Eywa (la forza che guida il popolo Na’vi). Se si osserva la mappa del villaggio, vediamo che assomiglia ad una rete neurale in cui i maruis/abitazioni sono i neuroni e le passerelle sono le sinapsi che li collegano.

Il concept di Cole dei pesci e della barriera corallina bioluminescente (a sinistra) e la stessa scena nella viewport di C4D.

L’idea di questa sorta di “rete” continua anche negli oceani, dove le forme del corallo appaiono sinuose e confluiscono una dentro l’altra. Questo aiuta il pubblico a capire l’intelligenza alla base della “rete" che collega tutti gli organismi viventi di Pandora. É un bel film d’azione, ma contiene anche ideali e temi profondi, e le persone riescono a connettersi al film proprio grazie alla storia ricca di emozioni.

Il corallo è stato molto semplice da realizzare: si tratta di un’unica grande texture per il corallo e il fondale marino con poche semplici alfa card di coralli. Per le forme dei coralli bioluminescenti ho puntato molto sull’aspetto dei frattali Mandelbrot, cercando di rafforzare l’idea di Eywa e del design intelligente. I banchi di pesci sulla barriera corallina bioluminescente sono stati realizzati usando MoGraph.

La barriera marina costituita da planton a rapida calcificazione e le relative terrazze includono pozze d’acqua naturali che di notte appaiono bioluminescenti.

Il Sea Wall è stato uno dei primi concept approvati nel 2014. È quasi un’entità vivente, con una serie di correnti che trasportano l’acqua ricca di nutrienti dalle profondità per nutrire la laguna. L’idea è che ci sia un plancton che calcifica rapidamente dando vita a queste strutture. Le forme sinuose della barriera si formano grazie all’infrangersi delle onde, mentre le terrazze grazie alle correnti.

Sapevo che avrei creato il Sea Wall con il photobashing e il rendering di frattali 2D, quindi mi bastava creare una base terrazzata. Ho modellato una terrazza molto semplice a forma di fagiolo e l’ho duplicata con MoGraph di C4D andando a riempire le forme di base del paesaggio con molti duplicati creando delle terrazze ondulate. Ovviamente il tutto è stato poi ridipinto, ma era comunque una buona base da cui partire.

Cole: I production designer sono a capo del dipartimento artistico e del prodotto finale del film nella sua interezza e in progetti grandiosi come i sequel di “Avatar” veniva sviluppato un intero mondo. Ho diviso il lavoro con il mio co-designer Ben, quindi io lavoravo su tutto ciò che riguardava Pandora, ambientazioni, culture, creature, ecc., mentre lui si occupava di tutto ciò che riguardava la Terra: veicoli, tecnologie, armi, ecc.

Tutti i design passavano da Jim ed è stato un processo molto divertente perché lui è davvero geniale! A lui venivano delle buone idee, magari non del tutto formate, e stava a noi metterle a fuoco. A volte si trattava di un processo iterativo che poteva durare dei mesi, in cui venivano create diverse versioni. Altre volte invece, di una jam session su una lavagna bianca e un pennarello, dove venivano abbozzate e confrontate le idee in tempo reale.

A sinistra il concept per la scena del funerale mostrata al cast da James Cameron per far capire l’atmosfera prima delle riprese.

Il concept in effetti è solo un bel dipinto se non lo trasformi in un set funzionale. Io mi occupo delle scenografie e del loro funzionamento, quindi abbiamo usato degli scout virtuali per esplorare i set vuoti, posizionando delle pedine nei punti in cui pensavamo ci sarebbero stati attori o azioni. In questo modo siamo riusciti a valutare bene le angolazioni e il contesto generale. Poi abbiamo coinvolto un gruppo di attori per interpretare i ruoli per il blocking e la ripresa delle performance.

Cole: Al momento sto lavorando ad una serie chiamata Engine City in cui c’è un ordine di monaci in una città tentacolare fatta di congegni giganteschi e forme che li ricordano. É un’allegoria sul rapporto in evoluzione tra l’uomo e la tecnologia. É un ottimo esercizio ed un’occasione per me di esplorare le metafore e le idee visive che mi interessano. Oltre ai paesaggi urbani epici, mi piace realizzare composizioni e luci in stile classico.

A sinistra il dipinto di Cole di Engine City: The First Snow (in progress) e a destra il risultato finale.

Volevo una composizione molto grafica per Engine City: The First Snow, con forme larghe e semplici. L’ho costruita in Photoshop e le sono rimasto strettamente fedele. Una volta trovata una composizione che mi piace, cerco sempre di renderle giustizia e di portarla a compimento. Credo che una delle cose più difficili da fare sia mantenere lo spirito e l’energia della bozza anche nell’immagine finale. Si insinua sempre una certa rigidità, che io cerco duramente di contrastare.

Per Engine City: The Last Tree (vedi sotto) volevo visualizzare questa enorme fossa delle dimensioni di una città a circondare l’ultimo albero di questo mondo. Ho immaginato che fosse la punta di una grande montagna completamente coperta da secoli di industrializzazione.

Engine City: The Last Tree renderizzato in Octane (a sinistra) e l'immagine finale.

Cerco anche di mantenere un certo equilibrio nella mia vita, e se posso cerco di uscire a dipingere all’aria aperta. Usare i colori ad olio è un ottimo modo per lavorare sulle abilità tradizionali, pensare al colore e alla composizione senza impantanarsi nei dettagli e godersi la natura! Imparo sempre qualcosa e per me è quasi uno sport.

Nelle ore libere Cole ama dipingere ad olio in plein air, immerso nella natura.

Cole: Sì, ci sto lavorando proprio ora. Le riprese del film sono già state effettuate e stiamo dando gli ultimi ritocchi ai set virtuali e apportando molte modifiche. Essendo uno dei production designer del film e anche del franchise, per anni ho anche curato la direzione artistica di diversi videogiochi, ho creato molti poster e una grande opera artistica per il packaging dei giocattoli. È stato davvero fantastico poter realizzare tutti questi elementi finali, sono stati la ciliegina sulla torta di tutto ciò che abbiamo creato.

All stills courtesy of Dylan Cole.


Author

Meleah MaynardAutrice/Editrice – Minneapolis, Minnesota